L’Uomo di Neanderthal (Homo neanderthalensis) è stata l’ultima specie umana alternativa alla nostra, i Sapiens, a lasciare questo pianeta 40 mila anni fa. Erano persone diverse da noi, molto diverse: erano tarchiati, robusti, probabilmente dalla pelle chiara. Eppure, ci siamo incrociati, ci siamo amati e l’ultima cosa che hanno lasciato sulla Terra, oltre alle loro ossa fossili e a qualche semplice manufatto, è dentro di noi, nel cuore più intimo del nostro essere: nel DNA. Molte ricerche hanno dimostrato che fino all’8% del genoma di una parte dell’umanità attuale proviene dai nostri cugini estinti. Dentro molti di noi c’è il ricordo ancestrale di un’umanità scomparsa per motivi che non sono ancora del tutto chiari.
Quella manciata di geni antichi non resta in silenzio e pare che abbia voce in capitolo nello sviluppo di certe caratteristiche che compaiono in noi Sapiens moderni. Una recente ricerca ha analizzato il DNA di oltre 7.000 persone e ha scovato tre varianti genetiche ereditate dai Neanderthal che sembrano predisporre chi le porta a una maggiore sensibilità al dolore. Questi geni rendono più sensibili le cellule nervose che percepiscono il dolore determinato da uno stimolo fisico, come il contatto con un oggetto appuntito, mentre non modificano la percezione del male causato dal calore, dal freddo o dalla pressione. L’influenza della genetica neandertaliana sull’umanità moderna era già nota: per esempio certe caratteristiche del nostro olfatto derivano dal loro nasone e pare che il Covid-19 abbia colpito più duramente coloro che nel DNA celano quegli antichi geni.